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Addio a Sergio Marchionne

Marchionne, 66 anni, è morto a Zurigo, dove era ricoverato da alcune settimane. Per 14 anni alla guida di Fiat – poi trasformata in Fca – e Ferrari, ha segnato una stagione industriale, non solo italiana

Sergio Marchionne è morto a Zurigo, dove da alcune settimane era ricoverato, e da alcuni giorni si trovava in coma irreversibile. Il manager, per 14 anni amministratore delegato di Fiat-Chrysler, aveva compiuto 66 anni lo scorso 17 giugno. Il gruppo Fca, in un comunicato ufficiale emesso sabato pomeriggio, aveva confermato che le sue condizioni di salute erano gravissime: «Non potrà riprendere la sua attività lavorativa», si leggeva nella nota. Informazioni successivamente emerse hanno specificato che Marchionne, dopo l’intervento alla spalla subito il 28 giugno, aveva avuto complicazioni inattese e gravissime, che lo avevano costretto in uno stato di coma irreversibile a partire da venerdì. Al suo posto, in Fiat-Chrysler è subentrato come amministratore delegato il britannico Mike Manley, mentre la carica in Ferrari è passata a carica a Louis Carey Camilleri, con John Elkannpresidente di entrambe le aziende.

La sua era

Gli ultimi 14 anni di Fiat, l’intero ciclo di rinascita del gruppo torinese, coincidono con l’era Marchionne, che ottenne la carica di amministratore delegato dell’allora Fiat nel 2004, a pochi giorni dalla morte di Umberto Agnelli, il primo a credere in lui tanto da cooptarlo in Consiglio di amministrazione. 
Gli studi

Marchionne era nato a Chieti, Abruzzo, nel 1952. Il padre, maresciallo dei Carabinieri, trasferì in Canada dopo la pensione per cominciare una nuova vita. La madre era di origini dalmate (Maria Zuccon). Prende tre lauree (Filosofia, Economia, Giurisprudenza) più un master in Business Administration. Diventa «dottore commercialista» dall’85 e procuratore legale e avvocato (nella regione dell’Ontario) dall’87. Descrisse così nel 2011 i suoi inizi, riportati da una brillante biografia del giornalista Giorgio Dell’Arti: «Quando ho iniziato l’università, in Canada, ho scelto filosofia. L’ho fatto semplicemente perché sentivo che, in quel momento, era una cosa importante per me. Poi ho continuato studiando tutt’altro e ho fatto prima il commercialista, poi l’avvocato. E ho seguito tante altre strade, passando per la finanza, prima di arrivare a occuparmi di imballaggi, poi di alluminio, di chimica, di biotecnologia, di servizi e oggi di automobili. Non so se la filosofia mi abbia reso un avvocato migliore o mi renda un amministratore delegato migliore. Ma mi ha aperto gli occhi, ha aperto la mia mente ad altro».

La carriera

Nel 2002 passa alla guida della ginevrina Sgs, colosso dei sistemi di certificazione che vede fra gli azionisti di controllo la famiglia Agnelli ed è in Svizzera che Marchionne si costruisce una rete di relazioni che contano. Due anni dopo arriva la nomina a Ceo. Marchionne, in giacca e cravatta come non avvenne poi praticamente mai, si presenta alla stampa insieme al nuovo vertice del gruppo Fiat: il presidente Luca Cordero di Montezemolo e il vicepresidente John Elkann, all’epoca ventottenne. Le prime parole che pronunciò quel giorno furono queste: «Fiat ce la farà; il concetto di squadra è la base su cui creerò la nuova organizzazione; prometto che lavorerò duro, senza polemiche e interessi politici». Il Lingotto era sull’orlo del fallimento con un debito convertendo, concesso dalle banche creditrici, che poi si rivelò decisivo. Un prestito che, senza un immediato cambio di rotta per un’azienda che perdeva più di due milioni di euro al giorno, avrebbe consegnato Fiat alle banche. Non accadde.

I primi 60 giorni in Fiat

Marchionne si mise a lavorare sodo sin da subito, anche nei weekend in una Mirafiori spesso deserta. «Mi ricordo i primi 60 giorni dopo che ero arrivato qui, nel 2004: giravo tutti gli stabilimenti e poi, quando tornavo a Torino, il sabato e la domenica andavo a Mirafiori, senza nessuno, per vedere le docce, gli spogliatoi, la mensa, i cessi. Ho cambiato tutto: come faccio a chiedere un prodotto di qualità agli operai e farli vivere in uno stabilimento così degradato?», disse nel 2011 all’allora direttore di Repubblica Ezio Mauro.

Le sue frasi

Tra le sue frasi più celebri: «La leadership non è anarchia. In una grande azienda chi comanda è solo. La collective guilt, la responsabilità condivisa, non esiste. Io mi sento molte volte solo». Oppure: «La lingua italiana è troppo complessa e lenta: per un concetto che in inglese si spiega in due parole, in italiano ne occorrono almeno sei».

Fonte: www.corriere.it

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